28 aprile 2021

Lo scorso venerdì, sul profilo Instagram della Cooperativa Oltremare, abbiamo inaugurato la stagione degli eco-aperitivi targati Oltremare. Di che cosa si tratta?

A cominciare da venerdì scorso, per 5 venerdì vi aspetteremo in diretta Instagram a partire dalle 18, per chiacchierare insieme di diverse tematiche, tutte legate al commercio equo e solidale, per celebrare insieme i nostri 30 anni!

Partecipare è tanto semplice quanto interessante: basta stappare una birretta (hai mai assaggiato le birre sociale del birrificio Vecchia Orsa?), afferrare uno snack salato ed equosolidale e collegarsi alla nostra diretta! Noi saremo lì, per brindare insieme al venerdì, al trentennale, e al commercio equosolidale.

Per il primo appuntamento abbiamo scelto di parlare di moda etica e commercio equosolidale (vuoi recuperare la diretta? Clicca qui). La settimana scorsa, infatti, Oltremare ha festeggiato la #FashionRevolutionWeek, ricordando la tragedia di Rana Plaza del 24 aprile 2013 e rinnovando il proprio impegno nella promozione di un rapporto più etico e consapevole con il mondo della moda (Se non avete mai sentito parlare di Rana Plaza e del movimento globale #fashionrevolution, correte a leggere il nostro ultimo articolo qui!).

Chi ha deciso di farci compagnia,  ha avuto l’occasione di chiacchierare con due ospiti d’eccezione: David Cambioli, presidente di AltraQualità, e Lucia Tagliati, modellista da sempre appassionata di moda etica ed ora anche operatrice del settore. Lucia, infatti, ha partecipato come modellista allo sviluppo della Cooperative Collection proprio di AltraQualità.

Per chi se la fosse persa, vi riportiamo qui la chiacchierata di venerdì, condotta da una delle volontarie storiche delle botteghe Oltremare e membro del CdA, Benedetta Spadazzi.

B: “Cominciamo da David. AltraQualità è una delle prime realtà ad attivarsi in Italia nel settore della moda etica e del commercio equo. La cooperativa, infatti, è attiva dal 2002, diventando ogni anno sempre più importante per il commercio equosolidale italiano e non solo. Raccontaci, allora, come è nata AltraQualità e cosa significa per voi il rapporto tra moda etica e commercio equosolidale.”

D: “Sì! AltraQualità è nata nel 2002, e già l’anno successivo, nel 2003, uscì la prima collezione di moda etica primavera-estate. Il legame tra AltraQualità, commercio equo e moda etica, dunque, è stato evidente e fondamentale fin dall’inizio. Il nostro progetto si è evoluto e consolidato dal 2003 ad oggi, includendo una rete sempre più ampia di partner e ampliando sempre di più la varietà dei nostri prodotti, che oggi vanno dall’abbigliamento, agli accessori, alle borse e alla bigiotteria. Inoltre, abbiamo sviluppato una linea di t-shirt in collaborazione con Pace e Sviluppo di Treviso chiamata “Parole al vento”; inoltre, nell’ultimo anno e mezzo AltraQualità ha collaborato anche alla Cooperative Collection con Altromercato, Equomercato, Progetto Quid e Meridiano361, in cui Lucia ha partecipato come modellista.”

B: “Parlaci un po’ dei produttori: chi sono e che cosa rappresentano per voi?”

D: “I produttori coinvolti nei nostri progetti di moda etica al momento sono diversi e collocati in diverse parti del mondo. Per esempio, abbiamo Creative Handicraft, Auromira, Armstrong e ArtisanWell in India, così come Soruka, che distribuiamo attraverso l’omonima impresa spagnola ma che è prodotta interamente in India. In Bangladesh, invece, lavoriamo con Artisan Hut, in Colombia con Sapia, in Vietnam con Craftbeauty e Craftlink, con Creation Hive in Kenya e tantissimi altri! Perciò mi soffermerò solamente su due o tre. Per esempio, è molto interessante l’esempio di Creative Handicraft in India: nata come ONG dal lavoro di una suora volontaria cattolica, nel corso degli anni ha iniziato a svilupparsi nella creazione di stoffe e tessuti costruendo negli anni una realtà solida e duratura, e non solo! Infatti, l’ONG da lavoro a qualche centinaio di persone degli slum di Bombay perché fondamentalmente l’obiettivo è quello di portare benefici ai cittadini locali – specialmente donne – che soffrono di povertà e precarietà. Oltre ai laboratori di tessitura, infatti, sono presenti anche una mensa, un asilo, e laboratori di vario tipo in cui possano trovare spazio persone diverse dalle abilità diverse.

Un altro esempio virtuoso, sempre indiano, è quello di Armstrong.

Qui abbiamo perso David per un problema di connessione. Quando si dice il bello della diretta!

Comunque, il succo è che AltraQualità lavora sia con piccole associazioni nate a scopi benefici e sociali e poi ingranditesi nel tempo fino a diventare realtà consolidate nell’ambito della moda, sia con ditte come Armstrong che sono nate come investimento imprenditoriale di privati e che però hanno deciso di seguire la linea del commercio equosolidale e di lavorare solo secondo prodotti e modalità certificate fair trade. Insomma, lavoriamo con una moltitudine di produttori tutti diversi gli uni dagli altri!”

[vuoi saperne di più sui produttori di AltraQualità? Leggi l’articolo che abbiamo pubblicato durante la scorsa Fashion Revolution Week!]

B: “Come avete cominciato a lavorare alla linea Trame di Storie?”

D: “In un Paese in cui la moda ha un forte valore economico e, soprattutto, simbolico, nel 2002 sentivamo il bisogno di tracciare un percorso diverso. Fin dall’inizio, inoltre, in AltraQualità ci siamo interessati allo sviluppo di prodotti e processi insieme con i nostri produttori, e nel campo della moda le fasi di ideazione e progettazioni sono momenti estremamente interessanti e fertili per creare scambi e relazioni di un certo spessore con i produttori. Lavorare con piccoli produttori in fase di ideazione e creazione significa confrontarsi continuamente su diversi aspetti: dalle tecniche di taglio e di cucito, all’utilizzo dei tessuti, al senso di una palette particolare di colori: i colori, infatti, assumo significati molto diversi a seconda dei contesti in cui ci troviamo! Si tratta quindi, come potrete immaginare, di uno scambio davvero arricchente per entrambe le parti. Diciamo che l’aspetto fondamentale che ci contraddistingue rispetto alle imprese di moda tradizionali, è che noi non commissioniamo la produzione di un capo, ma la costruiamo insieme ai nostri produttori all’interno di un dialogo continuo. Prima di pensare ai capi stessi, infatti, devi pensare alle persone con cui stai lavorando! Ossia, non tanto noi pensiamo a fare abiti, quanto a fare abiti con. Questo ha due conseguenze principali, in termini di complessità e ristrettezza del campo d’azione. Bisogna infatti rispettare le persone con cui lavoriamo e creare soluzioni condivise che siano in sintonia con le possibilità dei produttori con cui ci relazioniamo. Per forza di cose, dunque, si restringe il campo d’azione.

Per semplificare, quindi, noi non è che progettiamo un paio di pantaloni e poi lo commissioniamo al migliore offerente, no. La logica di produzione è esattamente opposta rispetto a questa idea, e rispetto alle attuali logiche di mercato, nonostante il mercato sia esattamente lo stesso. E qui si potrebbero aprire infinite parentesi, ma teniamole per una prossima diretta!”

B: “Non poteva non arrivare la fatidica domanda sul Covid-19. Come ha impattato la pandemia sul vostro rapporto coi produttori?”

D: “Sicuramente, difficoltà logistiche e di comunicazione dovute al fatto che per un po’ di tempo le attività produttive sono rimaste chiuse e, quando aperte, i tempi di consegna e scambio di materiali e prodotti hanno subito numerosi ritardi. Il problema principale, però, è un altro: i nostri produttori vengono pagati in base a quanto lavorano, non esiste alcun tipo di ammortizzatore sociale. Alcune realtà sono riuscite a sostenere i lavoratori in diversi modi: per esempio Creative, attraverso donazioni, è riuscita a pagare i lavoratoti anche quando questi non lavoravano. A Calcutta, invece, per permettere ai lavoratori di lavorare (anche se a un terzo dei ritmi normali) hanno improvvisato camere da letto adiacenti alle fabbriche per rimediare ai pericoli di contagio legati agli spostamenti lavorativi.
Adesso la situazione è un po’ migliorata, per esempio l’altro giorno ci diceva Noah’sArk (un altro nostro produttore di bigiotteria indiana) che sta iniziando a finanziare i vaccini per i propri lavoratori e artigiani, per cercare di velocizzare un sistema sanitario estremamente lento. Per le famiglie indiane, infatti, spesso i 5 euro necessari per la dose di vaccino non sono economicamente sostenibili. Insomma, per i nostri produttori così come per AltraQualità il quadro è estremamente ampio e complesso.

Comunque, rispetto a quella che è stata la reazione della maggior parte delle case di moda “mainstream” che semplicemente da un giorno all’altro hanno deciso di cancellare o dimezzare interi ordini, causando la chiusura di tante aziende e togliendo il lavoro a migliaia di artigiani, noi abbiamo mantenuto i nostri ordini, anche se non nascondiamo in quantità significativamente minori: questo inverno, infatti, gli ordini sono stati del 30-50% inferiori rispetto all’anno precedente. Questo a causa delle botteghe che ci siamo ritrovati piene a fine stagione. Il nostro timore è che questa emergenza si possa protrarre per un ulteriore anno, anno e mezzo, aumentandone la gravità. C’è anche una nota positiva, però! Non si è mai parlato tanto come in questo periodo storico di moda etica, perciò dobbiamo essere in grado di tenere alta la nostra voce ed evolvere elaborando strategie nuove per garantire un futuro diverso e migliore all’intero sistema.
Mi fermo ma potrei andare avanti all’infinito!”

B: “Grazie David, è sempre interessante ascoltarti parlare di moda etica. Adesso, però, facciamo quattro chiacchiere con Lucia. David ci ha raccontato un po’ le differenze sostanziali del rapporto con i produttori nel commercio equosolidale rispetto alla moda “mainstream”: raccontaci cosa rende speciale e diversa, invece, la progettazione di un capo di moda etica!”

L: “L’esperienza che ho avuto grazie alla progettazione della Cooperative Collection è stata unica e speciale: essendo coinvolti diversi brand italiani, fin da subito gli scambi sono stanti tanti e continui, in un processo di alimentazione continua che ci ha portati insieme a una prima definizione della collezione. Pensate che io, lavorando direttamente coi produttori già nella fase di ricerca iniziale, parto con un anticipo di un anno e mezzo: questo significa che alla collezione che vedete oggi nei negozi, noi abbiamo lavorato un anno e mezzo fa! Nella moda è sempre presente questo aspetto del rincorrere le stagioni e di partire con molto anticipo, ma in questo caso, anche banalmente per una questione di chilometri che intercorrono tra noi e i gli artigiani e, richiamando il concetto di cui parlava David in precedenza, per il fatto che noi non lavoriamo solo per fare l’abito, le tempistiche sono ulteriormente dilatate. E poi comunque ci sono scambi e ritorni continui: loro fanno il campione e ce lo inviano, noi facciamo un fitting e cerchiamo di perfezionarlo con la modellista, poi lo rimandiamo a loro: c’è proprio uno scambio anche fisico del prodotto oltre che di comunicazione prima della realizzazione della collezione! Oltre a questo, c’è tutto l’aspetto della scelta dei modelli, dei volumi, delle linee, che sono dettate anche dalla tipologia dei tessuti a nostra disposizione.

I tessuti, infatti, nel commercio equosolidali sono tutti 100% naturali, e sono una delle caratteristiche per me più interessanti!

Sui tessuti, gli occhi di Lucia si sono illuminati e noi insieme a lei. Chi vota per un equo-aperitivo in compagnia di Lucia parlando solo di tessuti? Noi sì!

Cosa significa tessuti 100% naturali? Sono tessuti fatti esclusivamente a telaio quindi in loco dai produttori. Una cosa non scontata, che ho imparato a conoscere lavorando nel settore, è proprio che non è che la persona che cuce e confeziona il capo è la stessa che fa il tessuto, anzi molto spesso servono due filiere, e quindi competenze, macchinari e abilità diverse. Io questa caratteristica l’ho vista proprio come un lusso, per questa bellissima vicinanza che c’è con la materia, che al di là della distanza di chilometri per me è meravigliosa!
E questi tessuti che vengono tessuti a telaio, scusate il gioco di parole, non contengono al loro interno l’elastan, che da quel famigliare effetto elasticizzato che noi ben conosciamo. Perciò tessuti come il puro cotone, o il cotone misto lino, presentano delle vestibilità anche molto diverse, e di conseguenza il capo deve essere studiato in modo diverso non potendo confidare in questo aiuto sottobanco che di solito fornisce l’elastan! Il lavoro comunque è un costante work in progress! Si cerca sempre, però, di prediligere la non mescolanza dei tessuti: questo ne facilita anche il riciclo! In un futuro ipotetico e molto roseo in cui i nostri abiti verranno spesso e volentieri riciclati, quindi, il fatto di essere costituiti di un unico tessuto renderà più agevole il loro riutilizzo.
Anche i dettagli sono davvero interessanti: i bottoni, per esempio, sono fatti di cocco! Lavorare alla creazione di linee equo e solidali è bello perché mi permette di vedere e valorizzare anche tutti questi aspetti che magari altrimenti non salterebbero all’occhio.”

B: “Il fatto di utilizzare solo certe tipologie di tessuti con determinate vestibilità ha mai rappresentato un limite per te?”

L: “Per la mia esperienza, la incentiva! Io sono così nella vita: c’è un ostacolo… vabbè dai lo superiamo in maniera creativa! C’è un tessuto per esempio, il tessuto cady, che mi ha colpito particolarmente e che vedrete anche nelle collezioni. E’ un tessuto che non viene utilizzato dalle case di moda convenzionali, forse anche per la sua trama particolarmente grossa. E’ un tessuto che ha anche una storia: è stato utilizzato da Gandhi durante la rivoluzione, quando suggerì agli indiani di acquistare abiti confezionati localmente e quindi che presentavano questo tessuto. Il fatto di sapere di stare utilizzando un tessuto così importante, confezionato con le loro mani e con questo carico energetico alle spalle dovuto alla sua storia ha stimolato un sacco la mia creatività! Ed è anche la cosa bella di entrare nelle botteghe equosolidali: si entra in bottega perché il capo è bello e ci ha quindi colpite già di per sé, e poi si scopre che dietro si nascondono anche queste storie qua. E’ davvero bello secondo me.”

E noi siamo assolutamente d’accordo con te, Lucia.

B: “Che cosa hai imparato rispetto alle tue esperienze lavorative nelle aziende di moda, chiamiamole così, “convenzionali”?

L: “Beh, innanzitutto per me è stata una sfida. Nelle aziende di moda convenzionali, infatti, ho sempre ricoperto il ruolo di modellista, qui invece sono andata uno step indietro! Ho cercato quindi di rendere il lavoro il più fluido possibile per la persona che viene dietro di me. Questo da un punto di vista tecnico. E poi, come diceva anche David, è stato bellissimo entrare in questo contatto strettissimo con i produttori che nel commercio equo solidale non sono dei nomi, sono delle persone. A volte mi sono stati messi anche dei paletti! Perché magari vagavo, ancora un po’ legata alle mie esperienze precedenti. E’ quindi anche molto formativo per me. Ora che le collezioni su cui ho lavorato iniziano ad essere un po’, anche io ogni volta capisco sempre di più come si lavora, i tessuti che abbiamo a disposizione, e tanti altri aspetti che piano piano aggiungo alla mia conoscenza. Da fuori, infatti, è molto difficile immaginare la complessità che si nasconde dietro a un semplice capo! Già di per sé, infatti, la moda è un settore complesso, ma qui a questa complessità di base si aggiungono anche gli aspetti sociali e umani a renderla ancora più ampia e meravigliosa.”

B: “Noi di Oltremare, Lucia, ti abbiamo incontrata in occasione della Fashion Revolution Week del 2018. Da allora di tempo ne è passato, e piano piano si sente sempre più parlare di moda etica e commercio equo. Quale è la tua percezione su questo tema e come credi che si possano avvicinare sempre più persone alla moda etica?”

L: “Io ci sono dentro e quindi mi vedo invasa da mille input. Mi rifaccio comunque a quello che diceva Marina Spadafora, la coordinatrice italiana del movimento Fashion Revolution per il nostro Paese: dobbiamo parlarne, e parlarne il più possibile! Un paragone che faccio sempre perché per me molto efficacie è quello con il cibo: io, che non sono esperta di cibo, nella mia missione di scegliere consapevolmente quali prodotti alimentari acquistare ascolto le informazioni e i consigli di chi se ne intende e ne parla. Non è quindi che dobbiamo diventare tutti esperti di moda etica, ma noi che ci siamo dentro dobbiamo parlarne il più possibile e far conoscere! E magari anche dare dei piccoli input, con estrema umiltà, che possano essere utili alle persone che si iniziano a interessare a questo tema.
Quest’anno, per esempio, lo statement della Fashion Revolution Week è andato ancora più in profondità rispetto all’anno scorso e da “Who made my clothes?” si è evoluto in “Who made my fabric?”, ovvero chi ha fatto il mio tessuto. Come dicevamo prima, infatti, chi fa il tessuto non è per forza colui che poi confeziona anche l’abito. Sarebbe bello, quindi, che come per il cibo siamo arrivati ad avere etichette che ci informano in modo chiaro e sicuro sulla provenienza dei prodotti che acquistiamo, questo possa un giorno arrivare anche nella moda. Sono tessuti naturali, come il lino o il cotone? Sono tessuti sintetici, come la lana? O tessuti artificiali? Proprio attorno ai tessuti artificiali, per esempio, c’è una bella nebulosa, che anche io ho solo da poco chiarito. I tessuti artificiali sono quei tessuti che partono da un ingrediente naturale per poi essere lavorati e trasformarti dall’uomo, da qui dunque l’attributo artificiali. Corrispondono per esempio a quel nome strambo che ogni tanto troviamo nelle etichette con il termine lyocell: pensate che questo materiale che rientra nella famiglia delle viscose deriva dalla polpa dell’eucalipto! Altri, come per esempio il modal, derivano invece dal faggio. Sapere decifrare le etichette insomma è tutt’altro che scontato! Possiamo dire che i tessuti siano vere e proprie ricette, di cui i tessuti costituiscono gli ingredienti. E’ importante quindi riuscire a leggere le ricette dei tessuti, anche per capirne la ricchezza e essere in grado di apprezzare ancora meglio quello che indossiamo e che mettiamo, e di prendercene cura. Ma qui si aprono nuovi mondi e nuove dirette!”.

Che dite, forse ci vorrebbe un certificato di moda etica come esiste per il BIO?

Federica Bergonzini
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